La mia opera più bella è il mio giardino” 

Così ha detto Monet parlando della sua arte a Giverny, la località a metà strada tra Parigi e Rouen, che aveva cominciato a frequentare dal 1883 con la sua compagna e dove qualche anno più tardi comprerà una proprietà. Qui trascorrerà gli ultimi 25 anni della sua vita, realizzando le sue opere più famose – il ciclo delle Ninfee – dopo aver trasformato il meleto e l’orto che trova, in un Paradiso terrestre.

Dimenticavo…l’acqua è pronta e possiamo preparare il nostro tè al bergamotto, dall’aroma fresco, ma intenso.

Un piccolo ponte sulle ninfee giapponesi

L’appezzamento viene progettato e organizzato dallo stesso pittore in un giardino d’acqua, lo stagno in cui fioriscono ninfee bianche e rosa, fatte venire appositamente dal Giappone e intorno iris, campanule, glicine, pioppi e salici piangenti a incorniciare il ponte giapponese, in legno, con una curvatura bassa, una sorta di passerella.

Vi è poi il giardino fiorito che fa da viale d’ingresso con grandi archi per le piante rampicanti e intorno alla casa le bordure colorate e profumare di narcisi, nasturzi, tulipani, dalie, papaveri, peonie, lavanda, margherite, primule, non ti scordar di me.

Al centro di questo incanto, la casa piccola ma accogliente e luminosa: a pianterreno la cucina, la sala blu, l’atelier e la sala da pranzo di un bel giallo allegro con la raccolta delle stampe giapponesi. Al primo piano invece le stanze da letto: la sua, arricchita dai quadri dei suoi amici impressionisti e dalla cui finestra poteva vedere le rose rampicanti e poi la stanza della seconda moglie e di sua figlia. A questi ambienti dobbiamo aggiungere un secondo studio di 300 mq, che si fa costruire ai primi anni del ‘900 dove dipinge le enormi tele delle Ninfee, oggi all’Orangerie e che ora è adibito a bookshop e negozio di souvenir.

Il giardino diventa il soggetto delle sue opere

A partire dalla fine dell’800 il giardino diventa il soggetto dei quadri di Monet e riprende l’idea medievale di “hortus conclusus”, un piccolo giardino recintato entro cui si trovano la Madonna con Gesù e gli Angeli, tra alberi e piante fiorite.

Hortus conclusus

Hortus conclusus

La pittura di Monet “en plein air” e in serie

Tra i tanti dipinti dedicati a questo giardino ho scelto tre vedute del ponte giapponese: due del 1899 simili nell’impostazione e l’ultimo del 1910. Li ho scelti per mettere in luce le caratteristiche innovative del modo di dipingere di Monet: la pittura “en plein air” e in serie.

Monet non è certo il primo che lavora all’aria aperta: prima di lui già alla metà dell’800 alcuni pittori dipingevano dal vivo nelle foreste di Barbizon e Fonteainebleau, per dare una rappresentazione più realistica della natura. Ma Monet è il primo che lavora immergendosi con tutto se stesso e con tutti i sensi, cercando di trasporre sulla tela la sensazione che prova. Era l’acqua immobile o agitata, la nebbia, la luce, il vento, la brezza che lo sfiorava, l’umidità del mare che lo avvolgeva, il tepore dell’erba, dei ronzii tra i fiori….provate a chiudere gli occhi, aprite bene le orecchie e il naso…..

Nel 1880 un giornalista gli chiese di mostrargli il suo atelier e Monet, indicando la campagna intorno, rispose: «Voilà mon atelier!»

Ho accennato al dipingere in serie…anche riguardo a questo Monet non è proprio il primo, anche pochi altri pittori usavano dipingere lo stesso soggetto come nuvole e mare, datando i quadri con l’ora il giorno, il mese e il tipo di tempo. Ma Monet lo fa in modo più sistematico e quasi ossessivo dipingendo molte serie: i pioppi, i covoni, la cattedrale di Rouen e le ninfee, le più famose. Utilizzando più tele contemporaneamente e con i colori in tubetto (invenzione fondamentale e necessaria per la pittura all’aria aperta) cerca di fissare sulla tela, con tratti rapidi e veloci l’attimo fuggente, quel momento unico che sta già per diventare un altro.

Le ninfee - Monet

Le ninfee – Monet

Mantenendo perciò fisso sempre lo stesso elemento naturale, Monet lo dipinge nelle diverse ore del giorno e nei diversi mesi dell’anno così: “si sfumano le madreperle dell’alba in grigi luminosi, in violetti cupi; ora vi s’infiamma il tramonto di rossi e di arancioni; il mezzogiorno vi fissa la calma azzurra della sua immobilità: la sera vi fa scendere i rivoli d’indaco delle sue ombre” (R.Tassi, L’atelier di Monet,1989 – pag.15)

In qualche modo Monet cerca di fissare l’attimo fuggente, lo scorrere del tempo, la consapevolezza della caducità della vita espressa anche con un certo velo di malinconia, che non copre però l’esplosione rutilante dei colori luminosi delle sue tele.

Torniamo ai nostri quadri: quelli datati al 1899 sono assai simili, con al centro una lunga linea arcuata, il ponte realizzato appositamente che divide in due parti lo spazio e se nel primo dipinto il punto di vista è più ravvicinato e i tocchi più decisi e precisi, nel secondo è più in lontananza e le pennellate sfumate e rarefatte. In tutti e due il cielo non si vede, ma solo salici piangenti e folti cespugli esotici nella parte alta e in basso piante acquatiche ai bordi e al centro, degradante, un tappeto di ninfee sulle larghe foglie galleggia nello stagno. I riflessi, vaghi e mobili dei cespugli e degli alberi si rispecchiano nell’acqua, tremolante e labile…

Questi paesaggi d’acqua e riflessi sono diventati un’ossessione” C. Monet

Monet si ispira alle stampe giapponesi, delle quali era collezionista, per il forte senso decorativo e per la scarsa profondità, elementi tipici orientali. Si riferisce in particolare alle stampe di Hiroshige che appartengono al genere dell’ ”ukiyoe”, ovvero immagini del mondo fluttuante, vedute di luoghi naturali dipinti con tratti sfumati e rarefatti.

Il terzo del 1910 è completamente diverso: a malapena si intravede la curvatura del ponte, il colore filamentoso e pastoso dato con pennellate sinuose nelle gradazioni di colori forti, arancio e rosso, lo trasforma in un quadro quasi astratto e questo è dovuto probabilmente alla cataratta di cui Monet soffriva che lo porterà quasi alla cecità.

Con questo e con altri dipinti di quegli anni Monet apre la strada alle correnti dell’arte contemporanea, che abbandonano la visione oggettiva e figurativa per mettere sulla tela, con linee e colori a volte indistinguibili, sentimenti, sensazioni, emozioni…Un modo  soggettivo di dipingere il mondo.

Giverny è una trasposizione dell’arte”  M. Proust

 

Curiosità e approfondimenti
  • L’hortus conclusus è ispirato a un passo del Cantico dei Cantici che recita: ”giardino chiuso sei tu sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata” e sempre a questo proposito un abate paragona Maria a un giardino chiuso dove nascono il giglio bianco della sua verginità, la violetta della sua inviolabile umiltà e la rosa della sua inesauribile carità. Al giardino chiuso si ispireranno sia il chiostro del convento che il giardino cortese dei romanzi cavallereschi. Nell’hortus conclusus si trovano numerose piante che alludono a Maria come rosa senza spine perché non toccata dal peccato originale, mentre i mughetti e i gigli rimandano alla castità e alla purezza e l’albero di ciliegie allude nel colore rosso al sangue versato di Gesù.
  • Il Salice: Fin dall’antichità ha avuto valenza negativa, perché i suoi frutti cadono prima di maturare. Ricordato da Omero nell’Odissea nell’episodio dell’addio di Circe a Ulisse. Secondo il mito Giunone sarebbe nata sotto un salice. Nel Cristianesimo il salice ha un doppio significato: di peccato e di lutto, ma anche di fede.
  • Il Pioppo: Il poeta latino Ovidio racconta che le Eliadi, sorelle di Fetonte, mentre piangevano il fratello, morto precipitando dal carro del Sole, furono trasformate in pioppi. Anche Plinio nella Naturalis historia parla del pioppo come simbolo matrimoniale perché sostiene che nella campagna campana la vite “si marita” al pioppo, cioè il rampicante si avvinghia alla pianta.
  • Il Tulipano: Secondo un’antica leggenda persiana sarebbe nato dal sangue e dalle lacrime di una fanciulla avventuratasi nel deserto alla ricerca del suo innamorato. Simboleggia l’amore e la vanità delle cose terrene.
  • L’Iris: In greco significa arcobaleno, ma è anche la messaggera degli dei e ancella di Giunone. È anche uno dei fiori dedicati a Maria: la forma appuntita delle foglie rimanda alla spada, cioè al dolore di Maria per la morte del figlio.

 

Per salutarci, vi propongo qualche interessante lettura: 

  • Il linguaggio segreto dei fiori – Vanessa Diffenbaugh
  • Ninfee nere – Michael Bussi